domenica 3 dicembre 2017

La grande emigrazione verso il Brasile




E’ invalso da tempo l’uso di definire gli anni dal 1870 al 1915 come quelli della “grande emigrazione” italiana. Si tratta infatti di un periodo, nel quale gli agenti d’immigrazione delle due Americhe trovano una forte rispondenza nel mercato delle braccia italiane e nel quale reti informali (familiari, comunali e persino provinciali) provvedono un continuo ricambio di partenti. In tale periodo si possono distinguere tre fasi: la prima, che si protrae dal 1870 al 1890, vede la preminenza dell’Argentina come meta migratoria; la seconda, che copre quasi tutto l’ultimo decennio del secolo, assegna al Brasile la palma di paese preferito; infine a partire dal 1898 l’irrobustirsi del flusso dall’Italia meridionale trasforma gli Stati Uniti nell’America per eccellenza, ma non dimentica neanche gli altri paesi americani.
Il Brasile è quindi la meta principale dal 1890 al 1898, ma anche nella prima e nella terza, delle fasi appena descritte, attrae una cifra non disprezzabile d’immigrati italiani. Questi tendono inoltre a stabilirsi nella nuova patria, in aperto contrasto con quanto avviene nel Nord America. Vedremo più avanti ragioni e caratteristiche di tale sviluppo. Per il momento è interessante notare come l’emigrazione italiana verso il Brasile tra il 1870 e la grande guerra possa essere ulteriormente suddivisa in base alle aree di arrivo e alle occupazioni prescelte dagli immigrati. Tra il 1876 e il 1896 un’immigrazione eminentemente agricola porta gli italiani a dissodare le terre delle province, poi stati, di Santa Caterina, Paraná e Rio Grande do Sul. Dopo il 1885 e almeno sino al 1901 molti si recano a coltivare il caffè nello stato di San Paolo: parte di questi emigranti rientra poi in Italia; altri preferiscono restare, ma rifluiscono lentamente verso i centri urbani. Questo abbozzo di filone urbano-centrico si protrae nel primo quarto del secolo e trova sbocchi secondari negli stati di Espirito Santo e Minas Gerais: anche in queste zone e anche nel Novecento, però, gli impieghi agricoli affiancano sempre quelli industriali o commerciali.
Per comprendere l’evoluzione dei trasferimenti italiani si devono tenere presenti alcune caratteristiche dell’emigrazione italiana e le trasformazioni del regime economico e politico brasiliano. L’emigrazione dalla Penisola tende in genere e da molti secoli a trovare all’estero quella liquidità che scarseggia a casa e quindi a reinvestirla in patria. A lungo quindi le mete preferite sono europee, ma nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al miglioramento dei trasporti, anche gli Stati Uniti o l’Argentina divengono un polo di attrazione per chi vuole integrare l’economia familiare con un viaggio temporaneo. Il Brasile potrebbe adeguarsi a questo modello, sennonché il già citato Pedro II proibisce la tratta degli schiavi nel 1851 e venti anni dopo dichiara liberi i figli di madre schiava. I grandi proprietari terrieri, soprattutto i fazendeiros dell’area del caffè, devono quindi reintegrare le riserve di manodopera a basso costo e offrono agli emigranti condizioni particolarmente favorevoli, almeno in apparenza, per convincerli a insediarsi stabilmente in Brasile.
Il viaggio in Brasile è assai faticoso, ma chi si appresta a disboscare foreste vergini può in alcuni casi ottenere un appezzamento di almeno 15 ettari (ma si può arrivare sino a 60), mediante l’accensione di un’ipoteca. Tale possibilità invoglia coloro che partono dall’area padana e soprattutto veneta, perché ritengono di non avere in patria alcuna possibilità d’incrementare il proprio fazzoletto di terra. In pochissimi anni gli arrivi aumentano a ritmo sostenuto e nel 1881 sono presenti in Brasile 82.000 italiani, molti dei quali hanno abbandonato i luoghi aviti per conquistarsi una terra e sono perciò decisi a rimanere.
Come già ricordato, nel 1870 gli immigrati italiani ufficiali si contano sulla punta delle dita, ma l’anno successivo e di nuovo nel 1875 gli arrivi superano il migliaio. Alcuni dei nuovi immigrati non sono in realtà partiti per andare a lavorare nell’impero luso-americano. Nei primi anni del decennio gli appaltatori brasiliani di manodopera non arrivano sino in Europa, ma si sono limitati a strappare braccia alla vicina Argentina. Questa infatti è allora in difficoltà (e qualcosa del genere si ripete anche agli inizi degli anni novanta, ma questa volta sono gli italiani ad abbandonare spontaneamente il Rio della Plata) e agli emigrati delusi, perché sottooccupati o ancora in cerca di lavoro, sono magnificate le potenzialità brasiliane in campo agricolo o minerario: in quest’ultimo caso è ovviamente sottolineato come oro e diamanti siano alla portata di tutti. Per gli importatori di forza-lavoro è infatti più sicuro prendere chi è già in America Latina. Non è in effetti detto che chi parte dall’Italia arrivi effettivamente in Brasile. In più di un caso le persone reclutate muoiono durante la traversata dell’Atlantico, stroncate dai pessimi standard igienici, oppure sbarcano, quando sono ancora in Europa, perché (giustamente) spaventate dalle condizioni di viaggio.
Per ottenere lavoratori dalla Penisola, le agenzie in cerca di manodopera entrano a volte in affari con italiani già residenti in Brasile. Il fenomeno non è nuovo: nel 1836 Enrico Schutel, console nello stato di Santa Caterina, vi attira una trentina di famiglie genovesi, che formano la colonia “Nuova Italia” (poi “Don Alfonso”). Nel 1871 l’imprenditore teramano Sabino Tripoti, rifugiatosi in Brasile sei anni prima a seguito di un ammanco di cassa fraudolento, firma un contratto con la provincia del Paraná e si impegna a portarvi una cinquantina di famiglie dell’Italia meridionale, che arrivano soltanto nel 1875. Sulla stessa nave, che salpa il 22 dicembre 1874 da Genova, s’imbarca anche anche un gruppo di mantovani e modenesi, arruolati dalla nobildonna Adelina Malavasi, amica dell’imperatrice, per popolare la provincia di Santa Catarina. Malavasi muore e gli emigrati da lei chiamati finiscono nella “Fazenda de Porto Real”, nei pressi di Rio de Janeiro. Quelli di Tripoti popolano invece, come promesso, la colonia Alexandra (dal nome della moglie del truffaldino imprenditore) nel Paraná. Poco prima era arrivata anche una spedizione di coloni “austriaci”, della quale facevano parte non pochi trentini e veneti. Negli anni successivi giungono altri veneti, mantovani e teramani, che ingrossano la colonia di Tripoti. L’impresa finisce miserevolmente, ma gli immigrati trovano sbocco in una seconda colonia, Nuova Italia, che presto supera le 2.000 unità.
Nell’arco di pochi anni si formano numerose insediamenti, alcuni composti interamente da italiani, come Nova Venezia nella provincia di Santa Catarina. Ora si muovono grandi agenzie, come la Pinto & Holtzweissig & Cia che tra il 1875 e il 1877 arruola oltre 35.000 emigranti. José Joaquim Caetano Pinto recluta principalmente nelle campagne del Tirolo, anche di quello italiano, e poi, per contiguità, in quelle del Veneto propriamente detto. Ai capifamiglia promette il pagamento del viaggio e soprattutto l’assegnazione di lotti, sia pure a titolo provvisorio, da 25 a 60 ettari e moderate condizioni per il riscatto definitivo.
In questi casi gli immigrati si impegnano a disboscare il terreno ricevuto entro sei mesi dall’arrivo e a costruire immediatamente una casa sul proprio appezzamento. Purtroppo le loro speranze si rivelano spesso fallaci. Una volta terminata l’opera di disboscamento sorge il problema di cosa coltivare. Nelle aree più meridionali si tende a piantare mais, frumento e vite; in qualche caso anche orzo, riso, fagioli e legumi o persino, dopo un certo tempo di acclimatazione, manioca ed erba mate. In quelle più settentrionali soprattutto canna da zucchero e caffè. Talvolta ai lavori agricoli si aggiunge l’allevamento del bestiame, soprattutto di suini, mentre ovini e bovini sono molto rari. Fallisce invece l’introduzione della gelsicoltura o quantomeno non fornisce lo sperato guadagno supplementare. Infine molti coloni arrotondano i magri proventi agricoli, prestando la propria opera nella costruzione di infrastrutture viarie e, in seguito, ferroviarie.
Nonostante queste integrazioni la condizione dei coloni resta difficile. I loro insediamenti sono infatti lontani dai mercati ed essi hanno quindi difficoltà a vendere la propria produzione. I coloni comunque resistono, perché sperano di ottenere il titolo di proprietà, e formano comunità rurali spesso quasi completamente isolate, nelle quali l’unico momento di contatto sociale è garantito dalla chiesa, dove, però, questa c’è.
A tal proposito le carte della nunziatura di Rio de Janeiro e quelle della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari riportano paradossalmente e ad un tempo continue lamentele sull’arrivo non sollecitato di preti italiani e innumerevoli richieste di sacerdoti da parte di comunità italiane abbandonate spiritualmente. Il problema esplode alla metà degli anni ottanta e presenta due versanti. Da un lato, le comunità immigrate o persino i singoli coloni chiedono soccorso alla Santa Sede: nel 1884 il bellunese Giovanni Battain scrive a nome di 5.000 italiani (e specifica veneti e lombardi) dello stato di Santa Caterina, che sono privi di assistenza spirituale da sette anni; quasi contemporaneamente l’internunzio apostolico Rocco Cocchia conferma che le comunità italiane e tedesche di Espirito Santo sono abbandonate a se stesse. Dall’altro, i vescovi e i rappresentanti pontifici scoprono che gli emigranti lasciati a se stessi non rispettano i dettami ecclesiastici: molto spesso coloro che sono partiti senza famiglia praticano, per esempio, la bigamia, cioè si sposano una seconda volta in Brasile, dimenticando la moglie lasciata in Italia.
Dalla seconda metà degli anni ottanta la Santa Sede interviene a più riprese a favore degli italiani in Brasile e chiede un maggior controllo, ma anche maggior sostegno, da parte dei vescovi brasiliani. Allo stesso tempo vescovi italiani interessati all’emigrazione – uno per tutti, Geremia Bonomelli ordinario diocesano di Cremona – scrivono in Vaticano e chiedono d’intervenire ancora più assiduamente.
Nel 1886 arrivano i primi missionari pallottini e nel 1889 Giuseppe Fàa di Bruno, loro rettore generale, si dichiara disposto a inviarne altri per seguire circa 40.000 italiani arrivati in Brasile, ma non riesce a ottenere facilmente passaggi gratuiti in nave. L’intervento nel 1888dei missionari di s. Carlo, la congregazione fondata da Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, e quello dei salesiani, agli inizi del Novecento, migliorano progressivamente la situazione.
Tuttavia le differenze tra la ritualità cattolica degli immigrati e quella locale, nonché il comportamento di molti sacerdoti italiani, emigrati abusivamente, indispongono i vescovi brasiliani. Questi ultimi, con il tempo, dispiegano persino un’italofobia, più volte biasimata dai nunzi apostolici, che non è lontana da quella dei loro omologhi di origine irlandese negli Stati Uniti e nel Canada. In alcuni casi comunque l’arrivo di una seconda ondata di sacerdoti italiani, adeguatamente selezionati, assicura una migliore assistenza agl’immigrati e facilita la riforma di alcune diocesi brasiliane. Le autorità vaticane sfruttano infatti la querelle sull’immigrazione per forzare la mano ai vescovi brasiliani e ottenere un complessivo miglioramento della situazione ecclesiastica. Tuttavia la resistenza della chiesa cattolica brasiliana alla penetrazione italiana si protrae nel tempo e ancora nel Novecento i nunzi apostolici chiedono l’intervento vaticano per assicurare l’assistenza ai compatrioti recatisi in Brasile.
Tratto da ASEI

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